Come dire addio al caffè e non riuscirci. Breve storia di un fallimento.

Dovete sapere che nell’ultimo mese la mia dipendenza da caffè è cresciuta in modo esponenziale. Prima prendevo uno, massimo due caffè a settimana, ora ne prendo uno dopo pranzo e a volte anche dopo cena, preferibilmente dec. Chi mi conosce sa che è una cosa preoccupante, perché sono sempre stata avversa a qualsiasi forma di dipendenza, e che il caffè nello specifico mi procura disturbi collaterali come agitazione, tremori, insonnia e un fastidioso effetto lassativo.

Qualche settimana fa, per motivi che esulano da quelli sopra elencati, ho deciso di impegnarmi a eliminare il caffè dalla mia dieta giornaliera, limitandolo a occasioni particolari o ai casi di emergenza.

Ecco come si è svolta la settimana del fallimento.

GIORNO 1 (sabato): caldo insopportabile già alle 8 del mattino, la giornata inizia bene. Dopo pranzo, momento di maggior smarrimento della giornata, mi reco alla fermata del pullman per incontrare Francesca e Claudia a Torino. Abbiocco sul mezzo giustificato da dondolio conciliante. Arrivata a destinazione, trovo le due comari sedute nel dehors di un bar di Piazza Vittorio. Apro e chiudo una parentesi doverosa: ho pagato € 1,00 un bicchiere d’acqua – probabilmente proveniente dalla preziosa sorgente di Terabithia – e non aggiungo altro. Mi siedo disidratata e ordino, appunto, il bicchiere d’acqua, resistendo alla tentazione del caffè per svegliarmi. La soglia dell’attenzione è bassissima, sono poco incline alla conversazione e sento le voci lontane lontane, quasi un “bla bla”.

GIORNO 2 (domenica): colazione abbondante, pranzo e cena leggeri. Nessun bisogno di caffè, sto guarendo! Mai cantare vittoria prima del tempo…

GIORNO 3 (lunedì): il lunedì, si sa, è il giorno più odiato da chi lavora, e io non faccio eccezione. Solitamente arrivo da un weekend in cui ho dormito poco, perciò l’emergenza caffè è dietro l’angolo. E infatti. Dopo pranzo mi sento bene, pimpante, zero sonno e voglia di fare cose, ma verso le tre eccolo che arriva, l’abbiocco potente, quello che puoi solo assecondare, perché non ti lascerà mai, mai senza prima essersi preso quel che gli spetta. Ingenuamente appoggio la testa allo schienale della sedia e Z…dormo per pochi minuti, ma dormo profondamente. Ciononostante non cedo alla tentazione, quindi punto a mio favore.

GIORNO 4 (martedì): mi arrendo al fatto che a Torino sarà una settimana caldissima, roba che le scarpe chiuse riducono i piedi a fontine DOP, e il sonno post pranzo è letale. Grazie a uno sforzo di volontà sovrumano, riesco a evitare la caffeina. Passo più volte davanti all’automatico da cui sento provenire voci femminili che pronunciano il mio nome, come le sirene di Ulisse, ma continuo stoicamente a passo deciso senza voltarmi.

GIORNO 5 (mercoledì): durante la pausa pranzo cerco di circumnavigare la sonnolenza uscendo a fare due passi in centro. L’errore è appostato e aspetta il momento giusto per saltarmi addosso, perché in Piazza San Carlo e dintorni ci sono bar “a mazzi”, da cui fuoriesce un’aroma di caffè che resisterle è veramente difficile, una mission impossible. Ma io RESISTO, non mi faccio certo spaventare da 4 bar, di cui uno fa il miglior caffè macchiato che io abbia mai bevuto*…aaaah…

*Bar La Stampa, provare per credere.

GIORNO 6 (giovedì): il fallimento si avvicina. Esco a pranzo con le colleghe, ordino un’insalata, l’unica cosa che sia in grado di mangiare, dato il clima equatoriale. Ruminiamo e chiacchieriamo, scherziamo e facciamo a gara a chi si aggiudica l’ultimo sorso d’acqua, poi passa il cameriere a chiedere se desideriamo altro e io rispondo in modo del tutto automatico: “un caffè macchiato per me”. Subito dopo vorrei mordermi la lingua, richiamare il cameriere e urlargli “nooo, non lo faccia, sto cercando di smettere!”, ma non lo faccio, ovviamente, perché il diavoletto sulla spalla mi dice che, dopotutto, mi sono punita abbastanza, uno strappo me lo posso permettere. Bevo il mio caffè con gusto e lecco anche il cucchiaino, dove è rimasta un po’ di schiumetta. Una sensazione calda e avvolgente, quasi materna, mi accompagna in ufficio, dove lavoro senza dover lottare contro la sonnolenza.

GIORNO 7 (venerdì): sarà una giornata lunga, perciò parto da casa con l’idea che oggi il caffè me lo bevo perché altrimenti non c’è modo che sopravviva. Dicotomia interiore “sì, lo bevo/no, non lo bevo” fino alla pausa pranzo, dopo la quale mi dirigo come un’automa al distributore, inserisco la chiavetta, digito 11 e attendo il mio espresso. Va giù come acqua fresca, gli dichiaro apertamente tutto l’amore che provo e torno alla scrivania, delusa per la sconfitta, ma felice di non soccombere al pomeriggio di tabelle Excel.

Un consiglio: volete smettere di bere caffè? Ce la potete fare con un po’ di buona volontà e riducendo al minimo gli stimoli esterni. Oppure no: benvenuto fallimento!

N.B. Questo post risale all’unica settimana calda di giugno, quindi non chiedetevi in quale mondo parallelo stia vivendo.

 

 

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2 pensieri su “Come dire addio al caffè e non riuscirci. Breve storia di un fallimento.

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