Cronache di Schwäbisch Hall – 2013

L’ARRIVO

Aereo, pioggia, treno, ancora pioggia, altro treno, cavolo quanta pioggia!, ultimo treno, devo mettere il k-way alla valigia altrimenti sarà tutto zuppo, scusi dove lo prendo un bus per il centro città? qui fuori, ma si sbrighi!, uff in tutto questo caos non trovo il portafoglio, ah eccolo! Anche tu vai al Goethe? Sì, andiamoci insieme.

No, non è finita qui, perché una volta raggiunto il Goethe-Institut, cartina alla mano abbiamo dovuto trascinarci sotto la pioggia fino al Wohnheim, dove ci aspettava una ragazza che ci avrebbe dato le chiavi delle rispettive stanze. Ah, parlo al plurale perché alla stazione ho incontrato Alba, ragazza spagnola di 21 anni che diventerà la mia compagna di risate, scherzi, serate e passeggiate. Ovviamente la mia stanza non si trovava nel Wohnheim, ma in centro, perciò ho dovuto riprendere armi e bagagli e ombrello e rimettermi in cammino. Scopro che condividerò l’appartamento con una ragazza del mio corso: si chiama Nastassia, è bielorussa e parla poco tedesco. Ed ecco che inizio a parlare involontariamente una sorta di Danglisch, del tipo: “Today werden wir… oh tut mir Leid, I can’t speak like this.” Non sto scherzando, alla fine delle due settimane sarò da ricovero.

Ci prepariamo e andiamo insieme alla cena di benvenuto che si svolge in un ristorante proprio nella via in cui abitiamo. Entriamo, notiamo un tavolo composto da persone piuttosto male assortite, e ci accomodiamo. L’insegnante, Ralf, pensionato di 72 anni con l’energia di un bambino di 12, ci accoglie calorosamente dicendoci che la cena è già pagata e abbiamo diritto a una bevanda. Sì, c’è anche il piatto vegetariano. La cena è piacevole, cominciamo a conoscerci un po’: di fronte a me c’è Ana, italoargentina di 43 anni, traduttrice e insegnante di inglese che vive a Madrid; accanto a lei Inma, spagnola di 37 anni, ingegnere delle telecomunicazioni; poi c’è Pa, svedese di età più avanzata, che è venuto fino a SHA in bici (!!!) Di fronte a lui Margarita, detta Margo, 18 anni di Mosca. Dall’altra parte del tavolo ci sono Carlos, Maria, Maiko, Reika e Alper che fanno comunella come se si conoscessero da sempre e non si vedessero da anni. Un gruppo molto misto, per età e per livello.

Ceniamo, chiacchieriamo, ma la giornata è stata eterna e siamo tutti stanchi. Dai, torniamo a casa. Ti va di fare un giro per la città prima? Ma sì, dai, perché no? Ma non c’è anima viva in città, solo noi e il ticchettio leggero della pioggia sull’ombrello. Meglio tornare a casa e abbracciare il cuscino.

Già, il cuscino. Merita uno spazio dedicato. Avete presente quei cuscini vaporosi ma mollicci che si trovano a volte negli alberghi? ECCO, era così. In qualsiasi modo lo girassi, soffocavo. Pugni a destra, pugni a sinistra, niente. Alla fine sono diventata talmente brava a piegarlo in modo che risultasse vagamente comodo che sembrava facessi un’origami. Beh, fosse stato a forma di cigno sarebbe stato sicuramente più confortevole.

Non ho mai desiderato così tanto buttarmi nel letto e dormire, credo. Che sonno, per ora è tut…zzz…

Consigli pratici

Se anche a voi dovesse capitare di andare a Schwäbisch Hall – che d’ora in avanti abbrevierò con SHA, per l’amor del cielo – o comunque in qualsiasi città che si debba raggiungere con il treno, se scegliete di volare con Lufthansa acquistate il biglietto del treno Rail & Fly, perché con 58 euro (A+R) potete recarvi dall’aereoporto alla destinazione predendo ICE, regionali, S-Bahn  e U-Bahn senza pagare supplementi, basta che vi stampiate il biglietto che vi arriva tramite mail ed è fatta. Avrei speso qualcosa come 200 euro di treno, quindi è decisamente conveniente.

LA SVEGLIA DELLE 7

Che viene posposta alle 7:15. Che risuona e riceve gran numero di maledizioni. Il calduccio delle coperte arrotolate ad involtino primavera agisce da diavoletto tentatore, ma per fortuna la ragione – e la fame, lo ammetto –  prende in mano le redini della situazione e mi scaraventa giù dal letto. Mi lavo la faccia, mi vesto e mi reco alla mensa dell’istituto, dove mi ingozzo come un pitone insieme ai nuovi compagni di corso.

Giusto, il corso. Si tratta di un corso di lingua e cultura, perciò non si trattano soltanto argomenti di grammatica e comprensione orale e scritta, ma tutto ciò che riguarda la storia della città, i musei, la musica, il teatro, ecc. Si rivelerà un corso ricco di attività non solo di lavoro in classe, ma anche pomeridiane e serali. Ma veniamo ai compagni: ci sono cinque spagnoli, due giapponesi, uno svedese, (no, non è una barzelletta, concentratevi!), un turco, due russe e un inglese. Ah, e un’italiana ovviamente (sono io, io!). Al turco mancano un sacco di denti, lo noto perché sorride spesso, che tenero. Se fosse un animale sarebbe sicuramente un panda. Avrete notato che la concentrazione di spagnoli è inverosimilmente elevata, e questo causerà in me un forte desiderio di imparare questa lingua stramba, fatta di s sorde e lingua tra i denti. Ci rendiamo subito tutti conto che il corso è eterogeneo dal punto di vista dei livelli di conoscenza della lingua, motivo per il quale l’insegnante faticherà non poco e trovare il modo di rendere le lezioni comprensibili a tutti e non troppo noiose. Oltre alla mensa, unica nota negativa delle due settimane.

La mensa, luogo di ritrovo non solo per la colazione e il pranzo, ma anche per il caffè delle pause dalle lezioni, ha i colori del Goethe-Institut, ovvero bianco e verde: tavoli bianchi, sedie bianche e verdi, tende bianche e verdi, pareti bianche e verdi…in effetti è un po’ maniacale l’attenzione per l’alternarsi di questi due colori. Il punto forte non è certo il cibo che viene servito: per carità, essendo vegetariana non mi posso lamentare più di tanto, ho sempre mangiato abbondantemente e la qualità non era male, a parte l’ultimo giorno, che mi son trovata nel piatto riso bollito e uno, dico UNO spiedino di verdura, che doveva essere grigliata, ma dalla consistenza era decisamente bollita. Chi ha mangiato la carne, invece, si lamentava spesso della consistenza, diciamo, tenace e del ripieno a volte poco gradito. Eh vabbè, la mensa è sempre la mensa.

DSCN5281

Il pomeriggio incontriamo la guida a Marktplatz e iniziamo la visita guidata della città dalla St. Michaelskirche, la chiesa principale, con la sua scala, sulla quale la sera hanno luogo spettacoli teatrali e musical. Vi chiederete, su una scala? Già, proprio così. Il primo spettacolo teatrale ad essere messo in scena fu Jedermann di Hugo von Hofmannstahl, in seguito si passò a drammi, commedie, e infine musical. Il primo musical fu Jesus Christ Superstar. Avete letto bene. Sui gradini di una chiesa. Ovviamente suscitò non poche polemiche, ma le acque si calmarono ben presto, perché fu un successo. Noi abbiamo assistito a Summer of Love, che mi ha fatto ballare sulla sedia e cantare per due ore e un quarto. Torniamo, però, alla guida. Nonostante i disperati tentativi di parlare un tedesco comprensibile, ogni tanto le scappa qualche scht di troppo. Parentesi linguistica: il dialetto svevo prevede che la st si pronunci scht sempre e comunque, ad esempio: kommscht invece di kommst; il diminutivo -chen non è previsto, si forma sempre con -dle, ad esempio: Lädle, Mädle, Städtle. Ed ecco che da parte nostra partono i commenti: “Hai sentito? Ha detto kommscht“, tutti fieri di aver notato la differenza. Alla fine del tour della città ci viene spiegato che a SHA esiste un Geist, uno spiritello, che spaventa le ragazze che passeggiano da sole la sera. Il giorno dopo sono subito corsa a cercarlo tra i souvenirs, l’ho trovato e l’ho acquistato in duplice copia. È questo:

Paura, eh?

Bando alle scemenze, SHA è bella, pulita, sembra di essere nel regno delle fate, niente cartacce, niente rumori o odori molesti, il fiume scorre lento e in modo quasi impercettibile, il verde dei prati e degli alberi risplende alla luce dei raggi del sole che filtrano attraverso i rami. Regala spunti fotografici ineguagliabili. La gente è felice, sorride, non va di corsa, alle 18:30 i negozi chiudono e se ti sei dimenticato di comprare il sale, beh, affari tuoi, ti tocca mangiare l’insalata insipida. È successo alla sottoscritta, e vi ricordo che Hall è una parola antica che significa “sale”.

WELCOME TO THE HOTEL CALIFORNIA

Una mattina, appena esco di casa, incontro un corsista – lo riconosco perché ha l’aria decisamente straniera e tiene in mano il quaderno verde ad anelli che ci hanno dato il primo giorno di corso. Facciamo quattro chiacchiere e gli domando da dove viene: “Ich komme aus California”, con un accento americano veramente marcato. Si chiama Kreg, ha circa 40 anni e un livello di tedesco piuttosto elevato. Ogni volta che lo incontrerò in corridoio mi saluterà così: “Hallo Barbra, wie geht’s?” 

Se c’è una cosa che mi fa rabbrividire, come quando si taglia qualcosa nel piatto e si produce quello strido insopportabile, è la pronuncia inglese/americana del mio nome. Non ci posso fare niente, mi infastidisce. Un giorno, durante una pausa dalle lezioni, conosco Chris, un altro americano, stavolta di Boston, che mi chiede come mi chiamo:

“Barbara”

“Ah, Barbra!”

“No, Barrrrbara!”

“Yeah, Barbra”

Oh, dannazione. Va beh, lasciamo stare, non è colpa tua. Costui, da me soprannominato Bruce Willis, mi racconta che è stato in Valle D’Aosta a raccogliere le nocciole per la Ferrero e che ha prenotato due mesi di corso di tedesco, ma stava pensando di fare solo un mese per dedicare il secondo al lavoro in fattoria. Alla mia domanda “Perché proprio Schwäbisch Hall?”, risponde che voleva andare in un posto tranquillo, possibilmente in mezzo al verde. Ottima scelta, Bruce.

Per un sondaggio personale, ho posto questa domanda a quasi tutti i miei compagni di corso e alle altre persone che ho conosciuto: per il 50%  è stata una scelta “forzata”, perché non c’erano più posti disponibili in altri istituti; l’altro 50% ha preferito non rispondere, coprendosi il volto con le mani. No, scherzo, molti erano già stati in grandi città e hanno deciso di optare per una Kleinstadt. Anche io, in realtà, volevo andare a Dresda, ma le date e la disponibilità dei posti non me l’hanno permesso. Col senno del poi, ne sono felice.

Nel programma del corso è prevista una serata Stammtisch al Biergarten sul Kocher, il fiume che attraversa la città, per permetterci di conoscerci un po’ meglio e passare una serata diversa. Quella sera, però, c’è un concerto della Kammerphilarmonie di Colonia al Goethe-Institut. Siamo un corso di lingua e cultura, vuoi non andarci? Suoneranno Le Quattro Stagioni di Vivaldi, VUOI NON ANDARCI? In effetti no, io e un’altra mia compagna volevamo andare al Biergarten, ma alla fine ci siamo fatte trascinare, ed è stata un’ottima scelta. Quattro violini, un flauto traverso, una viola, un violoncello e un contrabbasso. Vivaldi, Bach, Tchaikovsky e Monti (non Mario, Vittorio).

DSCN5168

Avrei applaudito ad ogni pausa e ogni volta rischiavo di farlo, rompendo un silenzio tombale che persino respirare pareva brutto. La birra, dopo tutto, poteva aspettare. L’acqua invece no. Prima del concerto, che sarebbe iniziato alle 20:30, vado con Nastassia in cerca di un bar/panetteria/alimentari dove poter recuperare dell’acqua, perché mi conosco e so che avrò sete. Entriamo in un localino che sta per chiudere, ma la commessa ci dice che se vogliamo qualcosa da bere possono ancora farcela. Nastassia, allora, chiede un caffè da portar via, e io una bottiglia d’acqua. Paghiamo e chiedo: “Scusi, l’acqua?” Mi viene indicato un bicchiere tipo quello della coca del McDonald’s pieno d’acqua. Wasser to go, ovvio. Non mi era mai successo che mi venisse servita l’acqua in un bicchiere da portar via. Che problema c’è, direte voi. Il problema sussiste, perché nella sala dove si tiene il concerto non possono essere introdotte bevande, e io di certo quel bicchiere colmo d’acqua – frizzante, per giunta – in borsa non lo posso certo nascondere. Quindi ingollo tutta l’acqua possibile alla Fantozzi e inizio a levitare come una mongolfiera, butto la restante acqua ed entro. Non avevo mai avuto modo di apprezzare la musica classica dal vivo, ma ora posso dire che è un’esperienza da fare, anche per coloro che non la amano.

Un giorno decido che ho bisogno di fare una passeggiatina al parco. La giornata è perfetta, splende il sole e la temperatura è ottimale, 28° C. Indosso qualcosa di comodo e, macchina fotografica alla mano in perfetto stile “giapu”, mi avvio verso il parco, a circa cinque minuti a piedi dal mio alloggio. Passo davanti ad un bel parco giochi per bambini, pieno di mamme e papà che giocano felici con i mostriciat…ehm, figlioletti; attraverso un ponticello e mi fermo a scattare qualche foto al panorama, poi mi incammino nel parco. Respiro a pieni polmoni, l’aria è leggera, pulita, fresca, il calore del sole è piacevole e la mia pelle abbronzata, direi quasi bruciata da giorni di esposizione sembra godere delle carezze della lieve brezza. I pensieri cominciano a diradarsi e la mente è completamente sgombera. Arrivo alla fine del parco, almeno credo, mi siedo su una panchina e mi rilasso per qualche minuto. Ma sì, faccio ancora due passi, chissà che cosa c’è al di là del ponte. Uuuh ma che meraviglia, ancora distese di verde, e laggiù c’è un castello! Mi avvicino un po’…ehi ma lì c’è una chiesetta, vado a vederla. Che carino quel ponticello in legno, vediamo dove porta. Morale della favola, ho camminato per un’ora e sono arrivata sotto al castello, ma sapendo che saremmo andati a visitarlo qualche giorno dopo, penso che sia meglio tornare indietro.

IMAG0746

La  naturale bellezza di questo posto non ha ancora smesso di stupirmi, perché il giorno seguente andiamo a visitare l’ecomuseo a Schwäbisch Hall-Wackershofen, dove veniamo accolti da adorabili maialini striati che scorrazzano allegri in un prato. Peccato che ne faranno salsicce. Ammetto che, se solo avessi avuto spazio in valigia, avrei comprato un peluche, era così morbido! Questo museo all’aperto merita una visita, soprattutto perché si possono scoprire antichi usi e costumi, ma anche cucina, infatti abbiamo assaggiato le “puzzette della nonna”, dei dolci fritti di pastella e uva sultanina, cucinati dalle nonne, appunto, che vendevano anche prodotti di loro produzione come marmellate e biscotti. Forse il nome è un po’ infelice, ma vi assicuro che erano ottimi. E poi, sarete d’accordo con me, anche una foglia secca se fritta è buona.

Poiché siamo in tema “cibo”, ci tengo a precisare che la cucina tedesca è pesante. Buona, per carità, ma pesante. La cosa più leggera che hanno è la birra, e ne ho bevuta parecchia. Devo ammettere che la Haller Löwenbräu non mi fa impazzire, ma rispetto alla Tucher è la birra più buona del mondo. Quando mangiavo fuori, era facile che il piatto vegetariano del giorno fosse a base di patate: al forno, in insalata, fritte, lessate. Io adoro le patate, ma alla terza cena a base di tuberi ero un tantinello stufa. E pensare che i primi giorni al supermercato avevo comprato delle patate… Mangiare fuori quasi ogni giorno non è stata un’ottima mossa, ma era un modo per godere della compagnia degli altri, degli scambi di pettegolezzi, differenze linguistiche, confidenze, situazioni politiche ed economiche dei paesi di provenienza, risate e…sapete che negli altri paesi europei per ordinare 3 birre facendo il segno con la mano usano indice, medio e anulare?

THERE AND BACK AGAIN

Il mio viaggio non è stato avventuroso come quello di Bilbo Baggins, duole ammetterlo, ma state certi che barcamenarsi tra bus, treni e aerei è stato altrettanto faticoso all’andata. Figuratevi, perciò, il mio stato d’animo al pensiero del ritorno, dopo aver dormito 4 ore, pianto, mangiato con lo stomaco chiuso, preparato le valigie più volte perché dovevo giocare a Tetris per farci stare tutto, pulito casa e buttato la spazzatura. Ok, quest’ultima è futile. 

All’una, dopo aver raccolto baracca e burattini, mi reco alla fermata del pullman 1 che mi porterà alla stazione di Schwäbisch Hall-Hessental. Con la voglia di partire pari a quella di un gatto che deve fare il bagno, salgo sul pullman, sistemo i bagagli portando via lo stinco di un signore comodamente seduto – avevo fame, probabilmente – e mi accomodo. Inizio a pensare che avrei passato tutta la giornata da sola con la mia tristezza, ma che il giorno dopo avrei rivisto tanta bella gente. “Pensa a qualcosa di bello, pensa a qualcosa di bello”, mi ripeto. Arrivo alla stazione, scendo dal bus ed entro nella sala d’attesa. Ehi, ma ci sono Carlos e Margo! FELICITÀ! Sapevo che anche loro sarebbero andati a Francoforte, ma credevo sarebbero partiti prima. Attendiamo insieme il treno diretto a Stoccarda tra risate, foto stupide e “come ti senti”, “beh, ho un macigno sul cuore e i viaggi mi agitano sempre”, “Già, anche a me.”

Sul regionale fa caldo, i sedili non sembrano molto puliti, mi ricorda i nostri treni, con la differenza che non c’è odore di stalla. Ovviamente Carlos deve aiutarmi a mettere il borsone sul portapacchi perché io, alta un metro e “dio, quanto vorrei avere 10 cm in più!”, proprio non ci arrivo. Il viaggio dura un’oretta e lo passiamo a scherzare e guardare le foto che Margo ha scattato durante le due settimane: più di duemila, non aggiungo altro. Arrivati a Stoccarda ci precipitiamo a prendere il treno per Francoforte, un Intercity con aria condizionata, vagone ristorante, bagno degno di questo nome e sedili morbidosi. E poi la Deutsche Bahn ti augura buon viaggio. Anche Trenitalia lo fa, direte, ma sapete che non sarà così.

Dopo un’ora e 40 minuti circa arriviamo all’aeroporto di Francoforte, che credo abbia più “abitanti” di SHA tanto è grande, e c’è addirittura il treno che collega i due terminal. Lo prendiamo due volte, una per accompagnare Carlos al Terminal 2, l’altra per tornare indietro. Noi e le nostre valige, che sono leggere, ma si appesantiscono sempre di più man mano che si avvicina il momento di salutarci e prometterci, mentendo forse, che “un giorno ti verrò a trovare”. E da questo momento il tempo scorre veloce, con Carlos che tenta di fare il check-in alla British Airways e gli dicono “guardi che Iberia è qui accanto”, la pizza prosciutto e funghi di cui mangio 2 fette scartando meticolosamente il prosciutto, il Caffè Zero al Mocaccino così dolce che persino Winnie the Pooh l’avrebbe schifato, l’espresso piccolo – già, in Germania esiste – che prendo rigorosamente amaro, e la coscienza che interviene ammonendomi: “hai bevuto troppo caffè, sei proprio scema, lo sai che ti agita, come se non lo fossi già abbastanza”. E arriva il momento di salutare anche Margo, che vola verso Mosca da Gatel Z, mentre io volerò verso Torino dal Gate B. Ciao, piccola Margo, sei una ragazza forte e determinata, diventerai una grande donna.

Ed eccomi al gate, in attesa dell’imbarco. Il decollo è previsto per le 21:05, ma viene ritardato di circa 30 minuti perché l’aereo è in ritardo. Vabbè, aspettiamo. Finalmente ci fanno salire sul bus che ci porterà a destinazione, ma qualcosa va storto, e quando arriviamo al nostro velivolo le porte non si aprono. Vediamo un gran trafficare sull’aereo, finché il capitano scende e ci dice che si scusa per il disagio, ma si sono rotte le ruote del carrellino delle bevande e stanno cercando di ripararlo. No comment, solo a me possono succedere certe cose. Gira e rigira partiamo con un’ora di ritardo, e accanto a me c’è un indiano che tenta di parlarmi inglese a voce bassissima, ma io non lo capisco e gli rispondo evidentemente cose senza senso perché mi guarda in modo strano. Mi immagino una conversazione.

Lui: “Sei italiana?”

Io: “Barbara, e tu?”

Lui: “Vai a Torino per lavoro?”

Io: “Ah, ma davvero?”

Lui: “Lasciamo perdere, tanto non capisci ‘na mazza.”

Io: “Grazie, anche a te.”

Deve essere andata più o meno così, perché si è allontanano senza salutarmi.

Una volta atterrata ritiro il bagaglio e attendo i miei che passino a raccattarmi al volo tipo pallina da tennis. A casa, finalmente. Fa freddo, ci sono 15 gradi, a SHA ne ho lasciati 30, ma vengo subito riscaldata da messaggi di amici e parenti. Ho la mente talmente affollata di pensieri che sembra Shanghai nell’ora di punta. Finisce un viaggio, ma ne inizia subito un altro, un viaggio che non so dove mi porterà, ma ho uno spirito abbastanza avventuroso da lasciarmi trasportare. Che importanza ha la meta? Nessuna, quel che importa è il viaggio e con chi lo si intraprende, quindi afferro la tua mano e salgo su quel treno, senza paure, senza ansie. Sorrido, vivo, abbraccio, respiro, ritorno. Di nuovo.

1185058_323443354465814_883192559_n

Lascia un commento