Porto, una città in cui tornare

Finalmente è arrivato il grande giorno, quello del mio primo viaggio di lavoro in solitaria. La destinazione è Porto, dove farò visita per tre giorni al Goethe-Institut per sbirciare nella quotidianità di questo piccolo istituto di lingua e cultura tedesca del Portogallo. Il viaggio di andata è piuttosto lento: partenza alle 9 diretta all’aeroporto di Milano-Malpensa, dove arrivo alle 11 e, grazie al chek-in online, mi ritrovo in un batter d’occhio a gironzolare in cerca del gate e a farmi spennare per mangiare un panino e bere della semplicissima acqua naturale da una semplicissima bottiglietta di plastica. Ladri.

L’aereo della PGA (Portugalia Airlines) è una robetta da un centinaio di posti dai colori tristi, che a causa di un vuoto d’aria improvviso mi fa fare un salto di 10 centimetri sul sedile…subito cala un silenzio tombale ma, passato il panico che ha zittito tutti, si torna a guardare le nuvole di panna e immaginare di affondarci le mani. Arriva il momento della pappa: solitamente quando viaggio non sono schizzinosa sul cibo, accetto di buon grado tutto quello che mi rifilano sull’aereo, è una questione di sopravvivenza; questa volta, però, sono andata molto vicina alla rinuncia, perché nella scatolina di cartone colorata c’era un mattoncino che sembrava una torta salata, ma che in realtà era la fancesinha, un piatto tipico portoghese a strati con carne e formaggio, di cui per fortuna assaggerò una versione migliore la sera, perché la carne sembrava quella che ti spacciano per prelibata nelle pubblicità di cibo per cani e gatti. Una volta atterrata, raggiungo l’hotel Eurostar das Artes con una perfetta combo di metro e taxi, mi sistemo con calma nella splendida stanza ed esco per una prima esplorazione della città. Porto mi piace immediatamente: è vivace, colorata, riempita come un bignè dal canto stonato e straziante dei gabbiani, turistica ma con garbo. A ogni angolo il mio sguardo viene catturato da una qualche meraviglia architettonica che mi induce a perdermi girovagando per il centro storico. Verso le otto mi viene fame e decido di fermarmi in un posto tranquillo in una viuzza secondaria per fuggire dal caos del centro. Mi rendo conto che l’età media dei gestori e dei clienti è da bocciofila, e che l’arredamento sembra risalire agli anni Sessanta. Aperta parentesi: a Porto credo ci sia la più alta concentrazione di bar tristi che abbia visto finora, con vetrine opache tristi, pareti tristi, e cibo triste, chiusa parentesi. Mi lascio convincere dal cameriere, che parla soltanto portoghese e deambula a fatica, ad assaggiare la francesinha fatta da loro: mi arriva un piatto dall’aspetto per nulla invitante, l’ennesimo mattoncino immerso in una brodaglia marrone, che le papille gustative, però, sembrano apprezzare molto – lo stomaco un po’ meno perché si ritrova una bella mole di lavoro da sbrigare, dopotutto gli ho dato da digerire una fatality di Mortal Kombat. Grazie al cielo ho ordinato una birra, che aiuta a buttarla giù. Dopo aver pagato, faccio ancora due passi per digerire il mattone e poi, nonostante le capacità di orientamento di un piccione con l’alzheimer, torno all’albergo senza problemi e cado in un sonno profondissimo.

Il giorno seguente, dopo un’abbondante colazione, mi reco al Goethe-Institut, dove conosco i colleghi con cui scambio informazioni varie ed eventuali sulle differenze tra i nostri istituti e le cose che ci accomunano, e inizio a sentirmi parte di un qualcosa di grande e davvero internazionale. Come sostiene la direttrice dell’istituto di Porto, è vero che non gestiamo centrali nucleari, ma nel nostro piccolo cerchiamo di migliorare sempre e mantenere degli standard qualitativi elevati. Ovviamente non è tutto rose e fiori, come pensano molti, ma ho conosciuto persone davvero ammirevoli e che svolgono il loro lavoro con una passione invidiabile. Chapeau.

La sera decido di andare a vedere il fiume e subito mi rendo conto che dovrò fare chilometri a piedi, perché non è esattamente dietro l’angolo: potrei prendere la metro, ma perché rinunciare a percorrere a piedi il ponte Dom Luiz I, realizzato da uno studente di Gustave Eiffel – un ammasso di ferraglia davvero imponente, che suscita un’espressione tipo questa:

  (non avevo il cappello-Pippo, ma avrei tanto voluto)

Immaginatevi un fiume color piombo, un tramonto, un lungofiume ampio con panchinette che si affacciano su moli a cui sono attraccate barche di legno con botti di porto – magari vuote, ma mi piace immaginare di riempirmici un bicchiere durante la navigazione – ristorantini dove assaggiare bacalhau na brasa (baccalà alla brace, bbono), sardine e sta fancesinha che ormai solo a sentirla pronunciare lo stomaco inizia a fischiettare facendo lo gnorri nella speranza di non doverla digerire mai più. Quello che cercavo di dire, comunque, è: immaginate uno scenario simile, voi seduti a un tavolino in riva al fiume, al tramonto, mentre sorseggiate del porto dopo una sana scorpacciata di pesce. Roba da voler fermare il tempo.

IMAG0431[1]

Questo è quello che faccio per tre sere di fila, macinando chilometri e fermandomi in qualche punto panoramico e solitario da cui godere del vento caldo e avvolgente, della vista mozzafiato e del grido dei gabbiani, pennuti tanto affascinanti quanto inquietanti, con quel loro fare tracotante e lo sguardo scontroso.

Dedico la mattina seguente alla visita del Palazzo della Borsa, fondato nel 1842, e a una passeggiata nei dintorni fino alla Ribeira, dove incontro un essere temibilissimo spesso oggetto di scherno sui social media: il tirannosauro rex, pronto a usare le mie ossa come stuzzicadenti.

IMAG0450[1]

 Pensano davvero di tenerlo buono buono in un recintino del genere?

 Un’altra cosa temibile a Porto sono i tram storici. Passeggiando per la città si trovano rotaie dove meno te lo aspetti: nei parchi, sui marciapiedi, in stradine strette e, ascoltate una scema, se ci sono le rotaie, ci sono anche i tram. Mentre sei assorto nei tuoi pensieri, ti ritrovi a doverti spostare improvvisamente perché in mezzo al parco sta passando l’infidissimo tram carico di turisti che ti suona per dirti: “ehi, ma non vedi che devo passare?”, e tu resti lì imbambolato per poi rotolare a terra in preda al panico. Beh, non proprio così, ma quasi.

 Avendo passato 2 giorni e mezzo in ufficio, non ho avuto modo di visitare la città come avrei fatto se fossi stata libera, ma ho scoperto che passeggiare senza meta mi ha permesso di apprezzare viuzze e scorci che, seguendo un itinerario prestabilito, magari mi sarei persa. Avevo ancora un desiderio da esaudire: vedere l’oceano. La mattina prima di partire ho fatto i bagagli, lasciato la stanza, e sono corsa a prendere la metro che mi ha lasciato a Praia de Matosinhos, dove sono stata accolta da un forte vento caldo e, soprattutto, la splendida vista dell’oceano Atlantico. Mi sono seduta sul muretto del lungomare, mi sono infilata le infradito e ho affondato i piedi nella sabbia fine e soffice, fino a raggiungere il bagnasciuga. Onde lunghe, acqua freddissima, gente che passeggiava, giocava a pallone o a frisby e io con le lacrime agli occhi per l’emozione di aver immerso i piedini nel mio secondo oceano. Che pirla.

Rientro a Milano senza staccare gli occhi dal panorama mozzafiato che intravedo dal finestrino dell’aeroplanino da 50 posti mentre sorvoliamo le Alpi, stanchi dinosauri cosparsi di zucchero a velo che lasciano il posto, man mano che scendiamo verso la città, alla monotona piattezza della Pianura padana.